martedì 24 aprile 2018

         AMELIA ROSSELLI

Amelia Rosselli
(Appunti sparsi e persi)
Secondo Fernando Pessoa: «Le tre qualità fondamentali dell’artista sono: 1) l’originalità, 2) la costruttività, e 3) la capacità di sospensione». Tutte queste qualità caratterizzano la poesia di Amelia Rosselli, l’incessante contrappunto che il poeta esercita tra un contenuto alogico, surreale, violento, e delle forme linguistiche, slacciate ma rigorose, capaci di ospitare questa incontrollata follia. Ascoltiamo alcuni suoi versi:
«Cercatemi e fuoriuscite»
«Improbabile sonetto
una vita errabonda condotta sul filo del rasoio.
Macchiandosi la punta delle dita
l’infarto premeditato una carovana del tutto obliqua»
«Contro degli dèi brandivo una piuma. Brandivo a vuoto
una piuma che non scendeva dall’aria»
«Nell’intendimento del tuo verso vi era il mio verso insonne».]
«Il caffè-bambù era la notte»
La lettura di queste sequenze genera un sentimento di oscura inquietudine. La sospensione tra un materiale magmatico e la sua momentanea composizione formale crea una sensazione di «quiete nella tempesta», non di leopardiana «quiete dopo la tempesta». A rileggere i versi misteriosi di Amelia la sensazione più netta che proviamo è quella di leggere un testo inadatto alla lingua italiana. Rosselli scriveva correntemente in inglese, francese e italiano, come testimoniano suoi testi bilingui e trilingui. Ma questo sentimento di inadeguatezza, di affanno della voce, permane. Dietro ogni suo testo scritto incombe un testo invisibile, minaccioso e violento – una massa oscura di parole da cui chi scrive può appena dipanare qualche frammento con aria sonnambula. La poesia che leggiamo è ciò che resta di una discesa agli inferi, di un insonne mormorìo che ci arriva proprio dal buio di questo testo primordiale, afasico, folle, allarmante, intessuto di lingue vecchie e nuove, vive e morte. «Erba nera che cresci segno nero tu vivi».
Il poeta, ricorda Marina Cvetaeva, è medium posseduto da voci. E, in quanto medium, deve ascoltare quelle voci che gli pulsano nelle orecchie o nella mente, dal rumore delle cose al ritmo del pensiero al battito del cuore, consapevole che il suo compito – impossibile ma reale, eterno e inattuale, sempre contemporaneo – è trascrivere quelle voci, tradurre quel «folle bisbiglio» in forma. Ma cosa significa forma, in questo caso? Perfezione, precisione, definibilità? No: significa pregnanza poetica – pertinenza lessicale e adeguatezza metaforica – a quanto di inadeguato e di tormentoso orienta la visione. Il poeta, secondo Paul Valéry, vive l’esitazione fra suono e senso come il turbamento necessario della parola. Il senso è il fantasma che procede accanto ai suoi versi – un fantasma da non guardare mai negli occhi, se non obliquamente.
Se la parola poetica fosse sintonica al sistema linguistico, non si avrebbero che opere previste e prevedibili di una triste koinècelebrativa di incontri amorosi e furori civili, narrazioni minimali e orfismi lirici. Al contrario, il poeta è sgradevole, discontinuo, sordo ai suoni abituali della lingua. Amelia Rosselli sacrifica l’eloquenza per la spoliazione, le forme del discorso per il silenzio sotterraneo che lo sgretola. Custodire questo silenzio è custodire anche il movimento opposto di una parola eccessiva, imprevista, incontrollabile, che traghetta il lettore nel regno delle analogie. Da questi due movimenti, dove il sommerso e il visibile si scambiano spesso la maschera, trapela l’etica della poesia rosselliana – il suo dovere di esistere ‘garantita da niente’, perché la parola è trovarsi ‘nudi nella propria parola’, folgorati da un dolore inguaribile e assoluto, che nessuna lingua sarà adeguata ad esprimere. Scrive Daniela Attanasio: «Non si può parlare della sua poetica come di un percorso di avvicinamento, di sviluppo piuttosto come un procedere irregolare che all’infinito riprova la sua durata, scivola liquido in un vertiginoso ‘volatile’ scrosciare, si erge spezzandosi a contatto di una lingua satura di deviazioni e invenzioni lessicali, si placa in moduli narrativi più espliciti e di più facile trasmissione».
La poesia di Rosselli suscita analogie con un’esperienza di invasamento sonoro. Coglie  ritmi puri, svincolati dal senso, sequenze libere dal peso delle immagini e dalla logica del pensiero. Per Yves Bonnefoy la musica della poesia – quella assurda, quella vera – nasce nelle parti del corpo e non nel cervello, nasce nelle ginocchia e nelle mani. Poi, da quell’inizio sordo e corporeo, si orienta, scegliendo suoni più articolati, ritmi più evidenti. «Ciò che il ritmo ha abbracciato diventa immortale, sfugge inconsapevolmente alle leggi terrene» (Boleslaw Lesmian). Rosselli sfugge a queste leggi con impetuosa, statica noncuranza, all’interno di un suo sistema metrico più musicale che linguistico, e impone una scrittura folle, irregolare, mai superflua, contro la superflua, stupida vita:
«Contro dello emisfero lanciavo sassi nell’acqua.
Contro del prosaico avvenire riempivo tasche vuote. Verso la cima]
trovavo il canto dell’usignuolo: riposo sotto gli elmi.
Contro il terrore di ogni adolescenza il mio corpo si levava
gridando! Evviva la libertà! Contro del terrore del corpo
adolescente si levava il grido unanime abbasso la libertà.
Contro della noia ogni ragionamento era superfluo. Contro
dell’abisso si stanca la luce. La luce era un terrore».
L’artista, come aveva intuito Paul Klee, non è un “albero” ma il “tronco di un albero”. Pervaso dal fluire della linfa, il tronco non può che raccogliere e trasmettere ciò che sale dal profondo delle radici. Né servo né padrone, occupa una posizione più modesta: non lo attraggono né la bellezza della vetta né la profondità delle radici, ma il percorso in cui si decide il cortocircuito fra la visibilità della prima, frutto compiuto, e l’invisibilità delle seconde, eterna germinazione. Non le vette o le radici, dunque, ma il corpo dell’albero. Ogni poesia può dirsi solo come quella poesia, con quel ritmo e quel senso, quella speciale “difformità” e si offre al lettore – lo voglia o no l’autore – come un testo finito ma tellurico, instabile, sensibile a quella che Lautréamont chiama “sete d’infinito”. Questa sete è lo statuto metaforico della lingua – il distacco dalla parola e il ritorno alla parola congiunti nell’ordine del discorso. Ma di quale ordine parliamo, se non di quell’architettura del disordine che è l’esperienza della scrittura?
La poesia contemporanea ci persuade a pensare un paesaggio non concluso, non organizzato per rimuovere il “disordine”, per renderlo innocuo. Una musica, si potrebbe dire, che cerca il suo opposto: la dispersione della melodia, il silenzio assoluto, la dissonanza (Rosselli ha scritto riflessioni di eccezionale profondità sulla musica contemporanea). La scommessa del dire poetico è, l’azzardo di un timbro nuovo, che è, in sostanza, la scelta intransigente del proprio paesaggio psichico. La parola deve prendersi carico di raggiungere la vita obliquamente – in forma di “suoni inudibili” (Celan). Questi suoni non esigono un tema risolutivo ma la ricerca della propria persona, delle proprie “note” nella musica del senso e negli effetti del suono, attraverso la parola. Non si tratta più di sperimentare la lingua o di rappresentare il mondo, perché tutto è già sperimentabile e rappresentabile: ma, attraverso parole ormai conosciute come portatrici di quel senso e di quel suono, approdare a un altrove perturbante, fatto dell’incrociarsi di musica e significato: è cioè possibile pensare sia il senso che il suono della parola come “materiali musicali”. Se la follia della parola è già tutta inscritta nell’inconscio del linguaggio, come suggeriva Benjamin, seguire il filo di questa follia è pensare la parola come una superficie in costante metamorfosi che non riflette nessuna profondità ma ogni volta la crea attraverso i nessi che avvicinano e allontanano, strozzano o amplificano, in incessanti cortocircuiti, le parole stesse: una Wunderkammer, una macchina delle meraviglie, che non mette queste meraviglie al servizio di una scena del mondo, bensì le inietta nel cuore delle cose, della realtà biologica, e lì si innesta, si combina o si disaccorda col reale. La superficie verbale, attraverso i suoi nessi, alla fine, si scopre profondità, in un gioco del rovescio che crea la nuova realtà dettata dall’esperienza delle parole stesse e delle parole con il destino che esprimono. Una profondità raggiunta per forza, esperienza, differenza di parole. Una profondità che è anche distacco e follia… Forse, oggi, il poeta si chiede ancora, con Novalis: “Cos’è il mondo? A quale scopo lo produciamo con i nostri punti di vista? […] Il vero poeta è onnisciente – è un mondo reale in piccolo”. Ma questa fragile onniscienza è il contrario della presuntuosa onnipotenza del poeta faber: è la consapevolezza, infelice, che nella lingua parlano solo le parole. Ma qui occorre pensare oltre Novalis: e credere che non parleranno mai solo le parole, ma il segreto che ci spinge a usarle in quel modo, in quella forma, con quel ritmo, trasformando la realtà da realtà che esiste prima di quelle parole a realtà che esiste dopo.
La via maestra, che colloca le ragioni della poesia nella ripetizione di esperienze poetiche già sperimentate, fondamentalmente accademiche e poeticamente innocue, è una via banale, scontata. La bellezza non è nelle formule estatiche della sua affermazione, in una orgogliosa e prevedibile perfezione, ma nel proprio malessere, in uno stato di permanente rifiuto di quella “melodiosità” che, secondo Celan, “ancora andava risuonando, più o meno imperturbata, assieme o accanto agli eventi più orrendi”. Il poeta di Czernovicz ci suggerisce che il linguaggio poetico “non trasfigura, non ‘poetizza’, esso nomina e instaura, cerca di delimitare il campo del possibile e del dato. […] All’opera qui non è mai la lingua stessa, la lingua in sé e per sé; bensì sempre e soltanto un io che parla dal particolare angolo d’incidenza della propria vita e che cerca una delimitazione, un orientamento. La realtà non è, la realtà va cercata e conquistata”. E’ nel campo di questa nominazione e delimitazione che l’avventura può ancora continuare: ma il tessuto su cui le parole possono ancora tessere i loro scambi semantici è un’esperienza che nasce dentro la naturale follia delle parole. Quasi che il poeta, oggi, dovesse con pudore disserrare la porta su questo crogiuolo di parole che si cercano, si incrociano, lottano fra di loro, frantumate, disperse, ormai orfane d’autore, e suo compito fosse solo tener fermo il filo sul quale cucirle, come il veggente organizza il materiale delle sue visioni: questo filo è la prospettiva da cui intravede il propriopaesaggio, la propria impronta, la propria irripetibile, necessaria, inespugnabile deformità.
Una parola nata casualmente porta con sé un destino infinito, richiede gli strumenti, gli organi di una frase, e poi quella frase ne esige un’altra, e un’altra ancora. L’articolazione del respiro in una folla eterogenea di sensi e di suoni è già il senso della voce poetica; una voce che, avendo presentito e ascoltato la sua distruzione, vuole non tanto la sua impossibile salvezza da quella distruzione, ma un “modo” di descriverla dall’interno, in quanto ineluttabile e necessaria: un “modo” al quale saper sacrificare il proprio destino, come lo si sacrifica per un’idea o per una persona viva. D’altronde, suggerisce Paul Celan, il poeta «ha voluto fare l’impossibile con il linguaggio, ma questo impossibile non significava per lui solo desiderio di dire, ma anzi desiderio di tacere».
I poeti veri, nel microcosmo delle loro specifiche parole, nella torsione di quella frase, nella scelta di quel lessico, non si accontentano di costruire un testo compiuto o decoroso o addirittura bello; ma sono sommersi, fino al rischio della perdita della ragione, nella percezione di un mondo pensato, ricreato, distrutto, proprio attraverso il corpo delle frasi, il succo delle sillabe, la linfa della sintassi; e in quella percezione, spesso anomala, spesso travolta dalla meraviglia e dall’eccesso, il loro destino è quello – fisico, testuale – delle parole che hanno scelto, e del modo con cui le hanno allineate sul foglio. Non si tratta, cioè, di distrarsi nei giochi sperimentali della lingua, ma di mettere la propria parola in gioco, e scommettere le forme del mondo sulle sue diverse apparizioni e combinazioni.
Così accade per Amelia Rosselli. Poeta non intonata, non ortodossa, fuori canto, fedele a quella che Cristina Campo definisce «una parabola del poeta, questo nemico involontario della legge di necessità». Secondo Musil il poeta non è né il folle né il veggente né il bambino, ma «l’uomo che bada alle eccezioni». E lascia ancora aperta la domanda: se «il poeta debba essere un figlio del suo tempo o un procreatore dei tempi». La risposta è tautologica: il poeta “crea” il suo tempo per l’attimo che gli serve a dissolverlo e, creandolo, riprende a vibrare in sintonia con chi lo ha preceduto e con chi lo seguirà, nel rispetto della propria “personale” eresia, del proprio sguardo rivelatore delle “crepe” del mondo:
«Per l’ansia che nasceva in me dal tuo tesoro io con molte
fiamme scendevo da te nella tua grotta, Per l’ansia che
mi nasceva dalla tua bravura nascosta, il tuo ansare senza
precipitazione fuori del sospetto io neanche bramosa correvo]
al tuo capezzale: ma trovavo la vita! E la vita si rivelava
con le sue crepe interne: veri miasmi di terrore».
_____________

venerdì 20 aprile 2018

FRANCESCO MAROTTA - DALLA SABBIA E DELL'ACQUA





“noi siamo acqua, memoria
che semina albe nel passaggio”

Francesco Marotta
(Tratto da: “L’eau/L’acqua“, 2017)

Parole
dalla sabbia e dall’acqua


a Yves Bergeret
ai costruttori di carene
ai custodi dei “giardini” di Koyo

I

1
Ci inoltriamo nella notte
col passo deciso e vigile
di chi conosce l’insidia della spina.
Mostriamo al cielo
la mappa degli astri sconosciuti
incisi sulla pelle, i segni
indelebili, febbrili
del morso feroce della fame.
Stretti nel palmo
conserviamo come una reliquia
semi di memoria.
Nell’anfora dei giorni l’infanzia della terra
che si fa spiga e voce
al richiamo delle fonti, canto
augurale, speranza di raccolto.
Sulle labbra
il respiro dell’acqua delle origini
mormora parole senza tempo
per dialogare col silenzio delle ombre.

2
Nel pane condiviso
la vita pianta il seme
da cui ogni alba rifiorisce il cielo.
Impara da quelle mani tese
l’alfabeto immutabile
delle stagioni, il legame perenne
col gesto fraterno che ripara.
Fa della tua parola
una dimora che accoglie, il respiro
che rovescia in canto
l’onda tenebrosa che inabissa e schianta.
Parola d’isola
che restituisce al naufrago
la luce senza mistero
della terra rinata e delle sue radici.

3
Il futuro è qui –
in questa barca sospesa tra naufragio
e volo, in questo abbraccio di destini
che partorisce fuochi
per rischiarare la tenebra
che assedia l’orizzonte.
E’ un verso interminabile, madre
di inauditi accenti, che ci precede
e segue sulle strade di ogni esilio.
E’ la passione antica
che albeggia nel cuore della rosa
che si fa argine alle maree di fango
generate dall’odio e dal rifiuto.

II

Abbiamo attraversato il deserto
per sentieri di sofferenza e speranza
dalla savana al mare. Il ricordo dei fratelli
che affidavamo ogni giorno
all’abbraccio materno delle sabbie
batteva il ritmo inarrestabile
dei nostri passi, ci indicava il cammino da seguire.
Ci insegnava a custodire la libertà
più grande, il dono estremo
di chi, morendo, depone nella terra
delle tue mani il suo frammento di sogno
affinché tu possa farlo fiorire
alla luce di occhi futuri. E allora quel mare
che non conoscevamo
non aveva più segreti per noi.
L’orizzonte lontano parlava la sua lingua
millenaria, era un’arca immensa
sospinta da un coro infinito di voci
mai udite, illuminava la vastità del cielo
col bagliore del primo seme dischiuso
nella stagione feconda delle piogge.
Voi intanto ignari, gioiosi convitati
a una festa oscura, veleggiate al richiamo
di un dio senza occhi che vi guida
verso i sepolcri d’occidente, alle dimore
sbarrate dove la vita che vive
soltanto nel respiro della parola che unisce
subisce l’ingiuria del silenzio, è un fiore
privo di radici partorito da una terra
ormai senza più linfa, senza più domani.

III

1
Non cede alla furia del mare
chi porge ascolto alla parola dell’acqua.
La lingua che ne ripete il canto
riscopre la sua natura di sorgente, l’oscura
matrice di ogni voce, di ogni vita.
Seguendo l’arco sonoro del vento
ogni corpo riemerge alle dimore del respiro.

2
L’immagine che nasce
dalle labbra calcinate da un grido
ha la forma incerta della luce
che non conosce il volo.
Spazio di cenere e miraggi
dove tace la parola che feconda il giorno.

3
Bianca come una mano tesa
nel gesto che disperde il corteo
delle ombre, la parola dialoga
con la cima e la radice, col frutto
e con la fonte. Immagine di immagini
che il vento non dissolve, specchio
luminoso dove tutto ciò che vive
trascorre senza inizio, senza fine.

4
La pietra che sogna
di ricongiungersi al cielo che l’ha generata
è sostanza antica di presagi, pupilla
di un desiderio cristallino. Non un grumo
rappreso di sillabe e di quarzo, ma domanda
inesauribile, voce in cerca di dimora.

5
Voce del principio, salmodia dolente
di montagne rovesciate, il mare
è una ferita che ribolle di suoni
come la sabbia del deserto
nel morire del giorno. Riconosci
nel coro delle sue onde oscure
l’eco dei passi che per millenni hanno varcato
quelle alture. Anche noi imparammo
dalla notte, illuminata dal fuoco
dei nostri fraterni sguardi, con quali colori
il flusso migrante delle dune
dipinge l’orizzonte che ci attende.

6
La stella che indica la rotta
oltre il naufragio, sorge ogni notte
dal cuore inviolato dei ricordi. Ha il volto
verde dell’infanzia e dentro gli occhi
paesaggi di ocra viva, sogni d’acqua sorgiva.
La voce del sangue
che partendo lasciammo come pegno d’amore
a benedire terre di pietre e arsura
è la sua sola luce.

7
I vecchi insegnavano ai nostri corpi
a crescere dritti e flessibili
come alberi che resistono
alla collera cieca dei venti e delle tempeste.
Altrove, figli di altre guerre e di altre
miserie, educarono la loro discendenza
alla danza verticale della vite, all’umile
saggezza dell’ulivo. Noi e loro, lontani
nel tempo e nello spazio, uniti
da un legame perenne che non teme
il mare, la morte, la distanza.

8
Isole di mani ci precedono in sogno
come spazi di azzardo e speranza
sottratti all’uniforme superficie
della morte. Occhi futuri
scrutano il mare con sguardi d’attesa
come lampade accese sulla soglia.
Un canto senza enigma, un coro
di parole visibili da lontananze estreme
guida il respiro affannato dei naufraghi
all’abbraccio materno della riva.

9
L’arca che accoglie i vivi e i morti
è la dimora indistruttibile
di un unico respiro. Ha il nome
di ogni vita che sei stato, è il ricordo
di ogni morte che hai vissuto. Il futuro
si annuncia nella traccia che lasci
quando scopri il tuo volto più vero
nello specchio di altri destini, nell’eco
infinita di colore e parola
che scioglie e disperde a ogni nuovo incontro
la tenebra cieca di rifiuto e violenza.

10
Dalla bocca della pietra
parla la sapienza delle ere, la meraviglia
di ciò che spinge il giorno
attraverso cunicoli di cielo, di storie
immaginate nel disadorno ammanto
del silenzio. Procediamo tra distese di immagini
che svanendo lasciano impronte di fiumi.
Noi siamo acqua, memoria
che semina albe nel passaggio.

11
Un canto di mille voci
modula in cadenze di respiro
la vocazione di essere e passare
lasciando polline di luce nel chiostro delle ombre.
Un fiore senza padroni, restituito all’ordine
della vita e delle stagioni, è questa dimora
insonne, questa barca che solca oceani
di cenere per farsi terra e acqua
di uomini cresciuti sotto cieli di sete.

12
L’arca apre solchi nel mare
rivoltando le onde come fertili zolle
di una terra futura senza più confini.
Mani da semina vi depongono voci
versi di un canto libero dal sonno
feroce del presente. Rifioriranno come il cielo
al richiamo di ogni nuovo giorno
radici grondanti di luci
per disperare il volto della morte.

IV

Come ogni notte, attendo l’arrivo dell’alba
soffiando via dagli occhi
il sale che l’onda impietosa
deposita a strati sul mio volto.
Tra le mie mani che annaspano
sento crescere e avvampare
il fuoco arcuato della morte.
Nell’aria che preme all’altezza dello sguardo
rivedo il deserto bianco
dove sono nato, la pozza limpida della mia infanzia
gli anni prosciugati dalla mia assenza
il tempo inabitabile del mio migrare
il sangue fertile col quale tracciavo segni
sulla mappa del mio ritorno.
Negli specchi della solitudine
visito la dimora delle mie piaghe, lo spazio
lacerato tra sogno e sogno, l’aspra vertigine
del rimpianto che recide parole alla mia voce.
Mormoro in silenzio
il nome dei compagni annegati
alla stella malata che sul mio sentiero
costruì il suo nido. Chiedo alla notte
che sciama insieme alle sue ombre
di restituire alle mie pupille
la speranza di un approdo
senza dolore, il respiro dell’orizzonte
che si colora di suoni
come una madre in attesa che cova nel grembo
la parola che cura ogni ferita.
In queste acque ho ritrovato me stesso
la mia memoria, il mio coraggio, il mio futuro.
Sostenuto dal coro dei naufraghi
ora nuoto sicuro verso la terra
degli uomini, là dove da sempre si coltiva
l’arte fraterna dell’incontro.

" dal blog LA DIMORA DEL TEMPO SOSPESO

PIERO DAL BON


Qualche tempo fa sono rimasto colpito da alcuni post pubblicati su FB che riguardavano l'amore, erano pubblicati, erano belli, profondi, e freschi come chi sta vivendo questo vastissimo sentimento. Cominciai a scambiare pareri e opinioni con lei e frequentando il suo diario, scoprii gli scritti di un suo amico, che erano potenti, originali, sinceri, un vero diario di un poeta dell'esistenza. Mi colpi talmente che abbandonai l'interesse per i post della ragazza e cominciai a leggere i suoi post , numerosissimi, strampalati, colti, lirici, epici e poi comincia a scambiare qualche parere, a volte serioso, a volte assecondando quella sua vena dissacrante, sempre venata di una disperata tenerezza, anche quando scagliava anatemi. Fu cosi che conobbi Piero Dal Bon, una conoscenza puramente virtuale, ma talmente vivace da essere ben più viva di tante amicizie o contatti su FB. Quel che qui voglio fare non è una nota critica letteraria, ma affrontare se mai l'impresa non facile, di dare conto di un itinerario esistenziale che è a mio avviso sempre pura poesia, che si fa talvolta grido, sommessa considerazione filosofica, invocazione, preghiera laica e tanto altro.

Ma partiamo dall'inizio, con testi più antichi che ho trovato in rete:

Da ; FANTASIA E SVAGHI DI UN MINORE

                                                  
                                                 PANTOMIMA

La realtà!". "No, questo no" borbottai. "Viaa". "Noooh". Non mi fecero caso. Protestai le mie scarse ragioni, una frase, una parola appena. Neanche a discuterne, fermi. "Realtà": una e santa. "No" m'impuntai. La cosa era quella: non c'era niente da fare. Cominciai a battere i piedi, a frignare. Miagolai, supplicai. Niente. Sgambettai via, fischiettando al mio cagnolino, Nulla.



TENERA FANTASIA EVERSIVA

       Un ometto tutto azzimato composto lucido a posto (proprio a posto) ma un po' troppo soddisfatto; questo ometto mulina il suo ombrellino nella piazzetta. E' una domenica sfavillante, di mattina. Il suo ombrellino perciò è a sproposito. Ordinariamente bambini s'azzuffano a pallone. Vecchiette astute malignano sulle panchine tra un Dio e l'altro. E ai piani alti ancora dormono, sazi e stravolti da un sabato di bagordi. Ed ecco che entro in scena io. Ancora composto, appena contraddetto dagli occhi folli. Ho il fegato malconcio ma le tasche gonfie di miracoli. Mulino attorno al dito il mio cappello di bolscevico- un arma che porto con abuso.
E l'ometto ordinario mulina più forte il suo ombrellio a sproposito. Un cagnaccio abbaia ringhia contro il mio cappello. Il cappello vola via è un uccello e si posa sulla punta dell'ombrello. Il cane salta su e divora l'ordinario. Le campane suonano per l'ultima volta, le chiese crollano e le grondaie; ed io volo sopra le vecchiette in festa buono e mi addormento su una panchina del mondo color amaranto.




SCHERZETTO SADICO E ALLEGORICO

A Mengaldo
       La luna piena mi tirava con la sua magia, sopra i tetti rossi delle tegole. Volavo per i vicoli incavati della mia città; tirato a lucido mi presentai all'appuntamento. Tra tendaggi e paramenti di porpora, lui era lì. Una schiera di servi avviliti gli asciugava la saliva che colava dai suoi enormi canini appuntiti. Io, mi tenni in disparte.
Poi venne la cena. E lui parlò. Lui parlava e gli altri annuivano. Parlava e parlava. Io impiastricciai il tovagliolo con un po' di pepino olietto e sale. E lui parlava. Gorgogliai qualche ruttino sommesso; e lui parlava. Gli altri a bocca aperta, stupefatti.
Allora presi forchetta e coltello, e feci una tinnula musichetta, come un ombrello.
Lui prese il cucchiaio e diresse il concerto.
Mi portò fuori al guinzaglio, salivante cane infiacchito.



ALLA PROSSIMA PUNTATA

mercoledì 18 aprile 2018

Frammenti di un discorso confuso:






e se

gli uccelli fossero per gli alberi
quello che gli insetti sono per i fiori?

tutto è linguaggio
basta solo fare attenzione
e il tempo si scopre
mentre sale una scala di spettri

Forse i poeti sono i veggenti
che varcano gli spazi del tempo.
Sanno che solo un mondo abbiamo
anche quello che diciamo invisibile.

***

Pure sono stato qui 
per anni suddivisi

la testa tra le nuvole
il resto
- giù più sparso - 

tra radici e dita sciolte
nell'accarezzamento
poi entrare nella tua

- intima porta -

cercando dove stare 
-un posto caldo- 
da abitare

***

in questa estasi che non saprei dire
invano mi attardo a decifrare
l'alfabeto del mondo
e scavo con le dita fino al sangue
umida la terra e pietre come rune
ma non ci sono miraggi sotto terra
solo colori di intime aurore boreali
- tu che ti apri ora - ma è già tardi

***



Forse son io quell'ombra che s'innalza
tra le foglie dei mattino. 
La luce non mi spiega nulla. 
E io ne ho abbastanza di stanche teorie. 
Se solo venisse una minuscola vocale
tra il vento nelle cime.
Solo una.

***



lunedì 16 aprile 2018

CARLA VIGANO' 6 POESIE






Non sapevo a cosa servisse il cardamomo 
e nemmeno come conservare i nostri luoghi
nei giorni dell'essenza quando insieme
convolare in posti convenuti
era frodare un precipizio
 -per noi nati sull'orlo di un enigma -
imparare a vedere coi tuoi occhi
è stato di quello che chiedo a me
accettare il rischio della metà rosata
non scie porpora -non la pena del distacco
e poi sai non voglio lasciare questa terra
nemmeno le abitudini incurvate
complici le une delle altre
quel poco di vento che mi sposta
tra il volerti e l'allontanarti anche
quando ci sfioriamo in ferite chiare
per negoziare o una clessidra o un bacio

***


non solo nei giorni di pioggia
capisco il silenzio delle cose
la sera dei resti
come ti sei persa,il tuo prestanome
vorresti chiamarti luminosa
raccogliere gli occhiali
come un sopruso alla vista
per riconoscere il filo
che annoda il tremore all'alga
e in tutto questo sprangare gli effetti
entrare negli archivi delle cause
dove le rughe si tormentano
in fioriture senza bordi

***


a pietra di luna scolpita
un riccio d'aculei fioriti
così ti compone la vista
di bellezza millenaria l
'estremità non ti scheggia le curve
ti plasma di vaniglia
e prepara lo spessore delle ali
cos'è il tuo antico candore
- un bianco che si asciuga
e d'epidermide in grani si disfa
nel suo appello naturale
in alcova a coda di lusinga
e manca poco una peluria selvatica
profuma i giri della mente

***


la domenica darei un bacio
a chi non passa sulla strada
a chi cammina scalzo o
ha foglie del platano ai piedi
al gatto coricato su un fianco
a chi gratta la fossetta a un bambino
e quello solo calcia con un sospiro
a chi s'impiglia a un filo e
crede sia in un ramo di fusaggine
a tutti quelli che dimenticano
l'alfabeto nelle corde
vocali e muti in bellezza hanno
sette occhi -al solito che
per ricordare un sogno
deve annotarlo in segni di grafite
a tuttti gli animali palmati
 non per sempre - solo al risveglio
quando volano bassi i liberi poeti

***


ho dimenticato il bicchiere
sul tavolo di cristallo in luce nordica
finge d'essere fuori da ogni cosa
un mistero lunare sconosciuto
marezzato d'azzurro vive
d'assenza e tiene il posto a chi
delicato sfiora i bordi
con la forza trasparente del lasciarsi
guarire con l'acqua
a convertire il tempo in pioggia muta
e fuori c'è silenzio e una pianta da balcone l
e nuvole sono
gente che passa vestita di bianco

***

Ospiteri un poeta se lasciasse sui muri
in graffio dell'intonaco-un futile sopravvissuto

se a tradirlo fosse un verso
un bisturi che diventa fiducia

se invitato al tavolo scoprisse tra le briciole
un lauto pasto di meditazione

se cadendo in un bicchiere ricomponesse
il vetro in cristalli scorrevoli

se invece di dire grazie mettesse se stesso
in centro per raccontarti della sua donna

se sprofondato in cuscini trafitti
sentisse della piuma il corpo intero

o se togliendomi le rughe lasciasse
che qualcosa cadendo di mano fiorisca

in una casa gialla,se con buone ragioni
il sole chiedesse permesso





martedì 10 aprile 2018

Mariangela Ruggiu 6 Poesie



MARIANGELA  RUGGIU POESIE






E' un problema serio, m'innamoro
di ogni persona che incontro,
m'incanto al primo filo dell'alba
e mi ferisco ad ogni parola dura.
Poi taccio, perché l'amore dissente
dal disamore, e non compete.
Mi contorce il senso di tutto questo,
lo sguardo incredulo di chi compatisce.
Ci sono i matti innamorati di tutto, 
ma sono pochi.

opera di José Rodríguez



*

non temere la paura
è come una stanza buia
che devi attraversare
aspetta sulla soglia
si adatteranno gli occhi
e vedrai nella penombra
come si riempie di te
vedrai venire da lontano
le cose che ti vestono
vestiti stretti, non è la tua misura
non temere di spogliarti
scivolano come veli
le cose calate su di te
cadono come la neve
le cose mancate
il silenzio freddo
i sogni mutilati
le porte chiuse
le strade senza uscita
non temere
l'anima nuda
guarda come splende
la luce che sei
come esce dalle fessure
delle mani
e si spalma su di te
ed è carezza

ed è nelle tue mani

** *                                                                               


lo sento come arriva piano, il dubbio
e diventa maiuscolo

e le poesie minuscole, come polvere sedimentano
sul tempo, come ali di farfalle nel vento dell'inverno
senza colore, opache trasparenze senza volo

stai con me, apri la mano e scriverò altri versi
pesanti come pietre, oscuri come la grotta del sonno
antichi come la sapienza della Madre

scriverò del seme del grano e delle sue radici
del latte verde che diventa oro e candore di neve

scriverò delle cuciture che chiudono le ferite
e delle parole che fermano il sangue

quando ero bambina un angelo con occhi di cenere
me le ha scritte addosso, le dico sottovoce
e piano un brusio si leva di voci sorelle, un coro


***

ho solo parole scheggiate
bordi che incidono il rifiuto
in questo tempo di canzoni
e di cavalieri neri che cavalcano
le nostre vite superflue

ho teorie di legittima difesa
ho la rabbia delle donne mutilate
come è mutilata la libertà
da uomini eleganti che si abbracciano
nel mutuo riconoscimento

sto scrivendo brutte poesie
ma sono come il vomito che sale

il vero piegato alla convenienza
non ha pietà dei bambini squarciati
e delle loro madri con i seni strappati

mi chiedo come si possa fermare il male
se resta solo la morte per sottrarsi
come se fosse finito il tempo
delle verità rivelate
e manchi ancora l'ultima

che spieghi tutte le altre



***

quando le parole sono tante
e sembra un cielo di nuvole che corrono
questo parlare fra me e te

allora mi fermo e ti guardo
e guardo il cielo e penso agli alberi
al silenzio con cui ci parlano
al fiato buono che respiriamo

e le nuvole si fermano

cerco poche parole, le trattengo nella bocca
come se fossero un uovo che deve schiudere
tace il mondo senza la parola, ma guarda...
abbiamo mani, abbiamo occhi e pensieri liberi

non credere alle grida che vengono da un altro tempo
non temere la minaccia, abbiamo già raccolto il sangue
e non siamo ancora vinti, ne basta uno solo
che dica la parola amore, e sarà per tutti


***

vengo qui con gli occhi nudi
la bellezza abbagliante ha svelato le ombre
e sono nel tuo incanto
e sono le tue parole dita che percorrono
l'anima, carezze infinite che aprono il corpo
e mostrano il tempio sacro che tutto contiene

sono piccole le stelle, il tempo è un numero finito
ma tu non hai un bordo, continui oltre la mia mano
divieni oltre il tuo nome, Verbo divino che fa lieve la carne

sei l'incanto in un corpo di donna
sei canto, voce che parla la Lingua dei muti
bellezza insostenibile che ferma il cuore
che toglie l'aria e lascia il corpo sulla soglia del volo



***


Intervista a Mariangela Ruggiu


Sei Sarda, cosa significa essere sardi in poesia oggi, ha ancora un senso?
Tutti abbiamo radici che affondano nella terra della nostra cultura, del luogo in cui viviamo, delle persone con cui siamo cresciuti. Da bambina ho frequentato la scuola con molta curiosità, amavo leggere, ma la scuola era impostata sull'italianizzazione della formazione, era vietato parlare in sardo, negli argomenti di studio non c'era riferimento alla cultura del mondo da cui provenivo, e anche gli studi superiori ignoravano completamente ogni riferimento al mondo di Sardegna.
Per fortuna c'erano i rapporti con le persone, e ho avuto il privilegio di poter parlare la lingua sarda, anche se sento come un grave handicap identitario il non saper scrivere correttamente la mia lingua.
Ma la Sardegna è anche testimonianza di un mondo sacro che si rivela nelle sue pietre, nelle forme e strutture ancora ignote o non accertate, o accettate, dagli studi ufficiali, eppure racchiudono tracce di una religiosità pura in cui sono sacri gli elementi fondamentali della vita.
Portare questa cultura, questo senso di sacralità in poesia significa affinare le percezioni e cogliere nell'umano i segni di un vivere secondo valori che non hanno spazio nella nostra cultura consumistica, in questo nostro tempo in cui la Terra non è più Madre, ma solo bene da consumare senza rispetto.


Si deduce nella tua poesia una forte spiritualita, come intendi questo termine?
Legato ad una fede religiosa? O al sentirsi parte di un tutto? O al percorrere sentieri misteriosi?


La mia esperienza di vita mi ha insegnato ad ascoltare, a scoprire sensi nuovi che non sono solo fisici, perché  noi non siamo solo corpo, ma assieme al corpo siamo pensiero, consapevolezza, capacità di amare e di comunicare l'Amore, e questo ci permette di superare i nostri limiti  e di entrare in un mondo in cui quello che siamo diventa armonia di corpo, e mente, e anima.
E si può percepire il nostro essere parte di un principio unitario che certi chiamano Dio, io preferisco pensarlo come Essenza che comprende tutto quello che esiste, e di cui noi siamo parte integrante.
E certamente è un percorso misterioso, un mistero che si rivela nel nostro percorso di conoscenza, indispensabile per conquitare la nostra libertà.


L'amore è sempre presente nelle tue poesie, come mai?
Cos'è l'Amore se non la conoscenza e la consapevolezza di quello che siamo, perché è vero che siamo carne fragile, pensiero imperfetto, animali erranti, ma siamo anche parte di un Uno in cui ogni limite svanisce, ogni individualità si compone, il male legge sé stesso e la conoscenza ci dimostra l'Essenza in noi come in ogni cosa che esiste. L'Amore è riconoscere questo nostro essere come se fosse una matrice in noi, in ogni vivente, in ogni cosa... averne consapevolezza è come vivere appena sopra lo svolgersi della vita quotidiana, leggerne il senso e vederla confluire e ritornare alla sorgente.
Se siamo materia di Amore, come potrebbe non esserci Amore in ogni gesto, in ogni pensiero, in ogni poesia, come potremmo non amare, noi che di Amare abbiamo una fame insaziabile...


La figura maschile più presente nei tuoi testi è quella del padre ce ne vuoi parlare.

La figura maschile, come quella femminile, del resto, contiene in sé tutti i modi di essere  dell'uomo, che sia padre, o bambino, figlio, amato o amante, a affiora nello scrivere quella che al momento è più vicino alle proprie sensazioni, alle proprie emozioni.
C'è un legame profondo, con mio padre, che è maturato nell'età adulta, quando il tempo ha invertito i ruoli e mi sono dovuta occupare di lui nella sua malattia. Ho letto in modo diverso, con occhi adulti, tanti fatti, tanti gesti e ho trovato tanto amore dove i miei occhi giovani non lo vedevano.
Pur amando molto la poesia, ad un certo punto della mia vita smisi di scrivere, ho ripreso otto anni fa, alla morte di mio padre scrissi la prima poesia dopo tantissimi anni senza più scrivere ... e la sua presenza c'è sempre nella mia vita e nella mia poesia, nell'amore che da lui ho imparato.


Traspare di tuoi testi un forte impegno civile, quali sono le tue fonti?
L'impegno civile non è altro che il nostro vivere nel mondo secondo i valori che scaturiscono  dalla nostra conoscenza, quando conosciamo, non possiamo più tornare indietro... e per quello che so la vita è preziosa... non solo la mia, la Vita che è di tutti, e non si può che rispettarla, e fare in modo che sia equa, dignitosa, luogo di libertà per tutti. Impegno civile non è altro che vivere.

**                                         **                                           **

Biografia: Mariangela Ruggiu


Sono nata e vivo in Sardegna,  ho fatto studi classici, mentre, per gli studi universitari, ho scelto la facoltà di Scienze Agrarie, ma sempre facendo spazio alla poesia, anche se a un certo punto della mia vita ho scelto di smettere di scrivere riprendendo solo casulmente, solo alcuni anni fa, in seguito alla pubblicazione delle mie poesie giovanili nel  libro  Amori soli,  pubblicato nel 2010 con la casa editrice Albatros.
Questa esperienza è stata motivo di una nuova ricerca poetica che mi ha portato a nuove, più mature e consapevoli pubblicazioni: nel 2012 il libro Versi @ versi per Rupe Mutevole, quindi la pubblicazione, nel 2013 nell'antologia Scelte vincenti, della silloge Mi hai lasciato uno scrigno di parole per la Casa Editrice FaraEditore, e nel 2014 per lo stesso editore, nell'antologia Opere scelte è pubblicata la silloge  Amore integro.
Nel 2015, nell'antologia  Sulla carta del tempo è stata pubblicata la silloge Resta anche domani, faremo passare la notte, per Terra d'ulivi edizioni..
Nel 2016 con Terra d'ulivi edizioni  è stato pubblicato il libro Il Viaggio, che ha vinto il secondo premio al concorso  Premio Letterario Internazionale Città di Sassari, mentre nel 2017, nella successiva edizione dello stesso Premio, una mia poesia inedita, “Che ne sarà di questo amore domani”, ha vinto il primo premio per la sezione inediti.


Pubblicazione libro IL VIAGGIO


Anno di pubblicazione: 2016


Casa Editrice: Terra d'ulivi Editore


2016:  2° .


2017: 1° Premio sezione Inediti  al concorso letterario  Premio Letterario Internazionale Città di Sassari

































































































DA "LA DIMORA DEL TEMPO SOSPESO" AMELIA ROSSELLI , CRITICA , INEDITI , MARCO ERCOLANI , POESIA , SAGGISTICA , SCRITTURE , S...