venerdì 20 aprile 2018

PIERO DAL BON


Qualche tempo fa sono rimasto colpito da alcuni post pubblicati su FB che riguardavano l'amore, erano pubblicati, erano belli, profondi, e freschi come chi sta vivendo questo vastissimo sentimento. Cominciai a scambiare pareri e opinioni con lei e frequentando il suo diario, scoprii gli scritti di un suo amico, che erano potenti, originali, sinceri, un vero diario di un poeta dell'esistenza. Mi colpi talmente che abbandonai l'interesse per i post della ragazza e cominciai a leggere i suoi post , numerosissimi, strampalati, colti, lirici, epici e poi comincia a scambiare qualche parere, a volte serioso, a volte assecondando quella sua vena dissacrante, sempre venata di una disperata tenerezza, anche quando scagliava anatemi. Fu cosi che conobbi Piero Dal Bon, una conoscenza puramente virtuale, ma talmente vivace da essere ben più viva di tante amicizie o contatti su FB. Quel che qui voglio fare non è una nota critica letteraria, ma affrontare se mai l'impresa non facile, di dare conto di un itinerario esistenziale che è a mio avviso sempre pura poesia, che si fa talvolta grido, sommessa considerazione filosofica, invocazione, preghiera laica e tanto altro.

Ma partiamo dall'inizio, con testi più antichi che ho trovato in rete:

Da ; FANTASIA E SVAGHI DI UN MINORE

                                                  
                                                 PANTOMIMA

La realtà!". "No, questo no" borbottai. "Viaa". "Noooh". Non mi fecero caso. Protestai le mie scarse ragioni, una frase, una parola appena. Neanche a discuterne, fermi. "Realtà": una e santa. "No" m'impuntai. La cosa era quella: non c'era niente da fare. Cominciai a battere i piedi, a frignare. Miagolai, supplicai. Niente. Sgambettai via, fischiettando al mio cagnolino, Nulla.



TENERA FANTASIA EVERSIVA

       Un ometto tutto azzimato composto lucido a posto (proprio a posto) ma un po' troppo soddisfatto; questo ometto mulina il suo ombrellino nella piazzetta. E' una domenica sfavillante, di mattina. Il suo ombrellino perciò è a sproposito. Ordinariamente bambini s'azzuffano a pallone. Vecchiette astute malignano sulle panchine tra un Dio e l'altro. E ai piani alti ancora dormono, sazi e stravolti da un sabato di bagordi. Ed ecco che entro in scena io. Ancora composto, appena contraddetto dagli occhi folli. Ho il fegato malconcio ma le tasche gonfie di miracoli. Mulino attorno al dito il mio cappello di bolscevico- un arma che porto con abuso.
E l'ometto ordinario mulina più forte il suo ombrellio a sproposito. Un cagnaccio abbaia ringhia contro il mio cappello. Il cappello vola via è un uccello e si posa sulla punta dell'ombrello. Il cane salta su e divora l'ordinario. Le campane suonano per l'ultima volta, le chiese crollano e le grondaie; ed io volo sopra le vecchiette in festa buono e mi addormento su una panchina del mondo color amaranto.




SCHERZETTO SADICO E ALLEGORICO

A Mengaldo
       La luna piena mi tirava con la sua magia, sopra i tetti rossi delle tegole. Volavo per i vicoli incavati della mia città; tirato a lucido mi presentai all'appuntamento. Tra tendaggi e paramenti di porpora, lui era lì. Una schiera di servi avviliti gli asciugava la saliva che colava dai suoi enormi canini appuntiti. Io, mi tenni in disparte.
Poi venne la cena. E lui parlò. Lui parlava e gli altri annuivano. Parlava e parlava. Io impiastricciai il tovagliolo con un po' di pepino olietto e sale. E lui parlava. Gorgogliai qualche ruttino sommesso; e lui parlava. Gli altri a bocca aperta, stupefatti.
Allora presi forchetta e coltello, e feci una tinnula musichetta, come un ombrello.
Lui prese il cucchiaio e diresse il concerto.
Mi portò fuori al guinzaglio, salivante cane infiacchito.



ALLA PROSSIMA PUNTATA

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